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attualità
01 Settembre 2010 | in categoria/e attualita
Si torna a scuola: ecco com'era ai miei tempi
Del mio arrivo in collegio e di quando si usava il pennino e i dispetti tra ragazzi consistevano nel mettere carta assorbente nel calamaio per ‘prosciugare' il prezioso colorante
Della prima infanzia ho pochi ricordi ma nitidi. Mi rivedo piccolo alunno di prima elementare che dopo l’esercitazione per lunghi periodi di puntini ed aste con la matita affrontavo la prima vera difficoltà: l’uso della penna con l’inchiostro. Era bello e interessante infilare il pennino, scelto con cura tra le tante forme per razionare l’uso a seconda della scrittura leggera o più marcata, in quell’asticella di legno variamente colorata e sistematicamente da quasi tutti rosicchiata. Si intingeva nel calamaio dove c’era l’inchiostro, un liquido nero fatto con una polverina sciolta nell’acqua. C’era sempre chi, per dispetto, metteva nel calamaio qualche pezzetto di carta assorbente e chi lo infilzava incautamente provocava un disastro sul quaderno, sul grembiule, sulle mani. Era un rito riporre dentro all’astuccino il pennino dopo averlo pulito nel nettapenne, un coloratissimo oggetto formato da strati rotondi sovrapposti di panno cuciti assieme dalla mamma e con al centro un bottoncino garrulo, la penna nell’astuccio di legno e per chi non poteva permetterselo, una borsetta di panno riciclato fermata da bottoni automatici a pressione sempre cucita dalla mamma. Quando entrerà in uso la stilografica con la pompetta i guai diventeranno ancora maggiori. Mi viene in mente il film “Mio figlio professore” dove Aldo Fabrizi è alle prese con una penna che vuol regalare al figlio con la puzza sotto il naso, la maneggia tanto maldestramente da far schizzare inchiostro ovunque in una scena esilarante che fa morire dal ridere.
Sperando per me un avvenire migliore, a sette anni mia madre si adoperò per farmi entrare nel collegio dove già c’era mio fratello Giuseppe. Allora esistevano veri e propri riformatori come la nave-scuola “Redenzione” fondata dal filantropo genovese Nicola Garaventa per ‘ragazzi derelitti, traviati o ribelli’ dove, si diceva, usassero mezzi di correzione drastici ed essendo la nave ancorata al largo del porto di Genova non offriva possibilità di fuga ma, comunque, formava ottimi marinai. Gli altri collegi erano poco meno che prigioni con regole severe. Quel mattino di ottobre del 1934 raggiunsi il collegio non ricordo con quali mezzi, ricordo solo che ero sconvolto alla vista dei grandi palazzi che sovrastavano le vie, delle macchine e dello sferragliare dei tram che, secondo me, facevano un rumore infernale.
Altra scioccante visione vista con stupore infantile fu quella distesa d’acqua con onde spumeggianti che si frangevano sulla costa: il mare! Ne avevo sentito parlare ma non l’avevo mai visto e quello spettacolo meraviglioso per un ragazzo di sette anni vissuto sempre in campagna fu molto impressionante. Ad un certo punto imboccammo una stradetta che si inerpicava sulla collina e ci sedemmo sopra un muricciolo sbrecciato. Mia madre tirò fuori da un fazzoletto a scacchi uva scimiscià abbrustolita, fichi spiacicchiati e pane casalingo cotto sotto la cenere e mangiammo. Lei era molto triste, piangeva e non valevano le mie rassicurazioni. Non mi rendevo conto che non avrei rivisto per ben cinque anni nè mio fratello maggiore Mario nè mio padre. Anche mia madre l’avrei rivista poche volte l’anno, ma ardevo dal desiderio di incontrare il fratello Giuseppe amato ed apprezzato in collegio, meritatamente, da tutti come il più bravo, il più intelligente, il più bello, il più tutto. L’incontro con lui fu qualcosa di indimenticabile, ci abbracciammo in una stretta incredibile: erano anni che non ci vedevamo e mi rendevo conto che sarebbe stato, anche se per breve tempo, il mio amabile tutore.
Vittorio Rosasco
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