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attualita, diritto, edizione cartacea, storia locale
26 Gennaio 2017 | in categoria/e attualita diritto edizione cartacea storia locale
Un colibrì ci salverà - La storia di Saami, che non sa cosa sono i sogni ma in Italia sta imparando la speranza
La vita, vera, in un centro di accoglienza per immigrati, raccontata direttamente da una volontaria, Giulia D’Arrigo. Una testimonianza frizzante e commovente che fa riflettere su una realtà che continuiamo a immaginare ma che non riusciamo mai vedere veramente
Genova, centro storico. Una stanza con le pareti dipinte con tutti i colori. Un tavolo, una manciata di sedie. Una lavagna e parole ricopiate in una calligrafia malferma ed esitante. Un silenzio surreale fa da sottofondo alle ultime righe della favola che stiamo finendo di leggere, tutti gli animali della foresta, prima nemici tra loro, si sono uniti per spegnere un grande incendio. Saami legge le parole che il re leone rivolge al piccolo colibrì:
- “Tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte per fame solo un brutto ricordo”.
Saami è un ragazzo del Mali, frequentava il liceo, qui si è iscritto alla scuola superiore ma forse dovrà lasciarla per cercare un lavoro. Gli chiedo cosa pensa della storia appena letta, lui ride e in un italiano ancora un po’ incerto:
- “Non si riferisce agli animali, ma all’umanità. Credo che dovrebbe essere così, ma siamo ancora molto lontani”.
Una volta gli ho chiesto che lavoro gli piacerebbe fare, qual è il suo sogno. Alla parola “sogno” ride, dice che loro non sono abituati ad avere sogni, che mettersi in viaggio significa prendere quello che viene. Ritrovo le sue parole nella storia di quasi tutti i ragazzi che ospitiamo. Lasciano la loro casa ed in ogni stato che attraversano si fermano. Lavorano per qualche mese, quello che trovano, quanto basta a mettere via i soldi per ripartire e poi il viaggio ricomincia.
A volte la meta è l’Europa, a volte la Libia, lì si racconta che c’è molto lavoro, altre volte l’unico obiettivo è mettere più distanza possibile tra se stessi e il proprio paese, per via di una guerra o una persecuzione politica, religiosa, familiare. E allora si attraversa il deserto, sui camion, poi il mare, che molti prima non l’hanno mai visto. Ricordo un ragazzo afghano che a sedici anni ha guardato quella distesa di acqua, il mare, e la bagnarola su cui avrebbe dovuto salire e ha pensato che se fosse morto così sua madre non lo avrebbe mai saputo- E che non c’era più tempo per salutarla. Qualcuno sulla barca viene caricato a forza, come quelli fatti prigionieri in Libia perché privi di un visto e costretti ad imbarcarsi quando le carceri sono troppo piene per ospitarli. A volte pensiamo che l’Italia sia la fine del viaggio, che il percorso che provano a fare qui, in questi pochi mesi, sia l’ultima tappa di quel cammino infinito. E invece, una mattina, apri la porta e trovi un letto sfatto, l’armadio vuoto, pochi oggetti e tanti ricordi, e ti rendi conto che per alcune persone le radici non esistono, ci sono solo porti di mare in cui trascorrere un po’ di tempo per riposare, e poi ripartire.
Dico a Saami che dovrebbe provarci, a desiderare qualcosa, che il diritto a sognare dovrebbero averlo tutti gli uomini sulla Terra. Lui guarda fuori dalla finestra. Si perde a seguire la scia di un aereo, alza le spalle esili e dice che forse ho ragione, che ci proverà.
Ogni tanto i ragazzi mi chiedono se questo lavoro presso la Fondazione Auxilium mi piace. Sì, mi piace. Perché lavorare qui significa diventare un ponte. Un ponte tra la comunità e il mondo esterno, tra l’Africa, l’Asia e l’Europa, tra mondi diversi ma non troppo. E non solo perché facciamo da tramite con gli uffici di riferimento, dal comune alla Questura, ma perché spesso ci ritroviamo a simulare colloqui di lavoro, a dare consigli su come leggere i voti di una pagella ma anche come presentarsi al primo appuntamento con una ragazza. Che anche l’amore è un ponte. Il più bello.
Ripenso, all’augurio del leone e ai nostri ponti sottili e traballanti, fatti di piatti tipici e musica e risate e incontri.
-“Bisogna provarci, anche se siamo ancora lontani.” Lui mi sorride:
- “Sì, si può fare”.
I commenti dei lettori
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