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edizione cartacea, storia locale
11 Aprile 2016 | in categoria/e edizione cartacea storia locale
"Ricordo di aver mangiato l'erba dei prati, per la fame": per il nostro "Memorial Ghilarducci" la preziosa e toccante testimonianza di Anna, orfana della guerra
Era la primavera del 1945, l’aria era ancora fresca, ma sugli alberi incominciavano a vedersi i primi boccioli di fiori. C’era una grande casa alla fine del paese, sede di un istituto per orfani, gestito dalle suore. Una ventina di ragazzine tra i sei e i sedici anni. Io ero tra queste, avevo nove anni. Prima della guerra ci si andava soltanto nella stagione estiva, ma dopo i bombardamenti su Genova dalle navi inglesi che avevano distrutto la città e la sede cittadina dell’istituto era diventata l’unica residenza. In quel paese l’inverno era freddissimo; la temperatura scendeva anche di quindici gradi sotto lo zero. Era normale avere i “geloni” alle mani e ai piedi, non c’era riscaldamento né acqua calda. L’estate invece era bellissima, i prati erano pieni di fiori e potevamo saziarci di frutta perché i contadini ci regalavano le eccedenze, che non si potevano conservare. Nessuno aveva il frigorifero. Dalla casa rossa partiva un sentiero che portava ad una collinetta pomposamente chiamata “Monte Carlo”. Ci andavamo spesso a giocare facendo delle belle scivolate sul declivio erboso.
Ne avevano fucilati diciotto, ma uno si era salvato.
I partigiani, in uno scontro a fuoco, avevano ucciso nove tedeschi e la loro regola era questa: per ogni tedesco ucciso due prigionieri prelevati dal carcere e uccisi. Quel piccolo paese divenne famoso proprio per quell’evento. Ogni anno, in Aprile, vengono ancora commemorati “I MARTIRI DI CRAVASCO”.
Fino a poco tempo prima il paese era come un’oasi di tranquillità, in mezzo al conflitto, ma quando i partigiani si rifugiarono sui monti circostanti arrivarono anche i soldati tedeschi. Li vedevamo per strada, agli incroci delle strade e dei sentieri, armati fino ai denti. Non ricordo per quanto tempo rimasero nel paese. La guerra dalla quale eravamo fuggite due anni prima, ci aveva di nuovo raggiunto. Il nemico adesso era in mezzo a noi. Anche vicino all’edificio del collegio era stato piazzato un piccolo cannone. Poco prima che arrivassero i tedeschi qualcuno aveva portato via dalle cantine tutte le provviste: farina, zucchero, uova, patate e persino delle galline vive. Le suore dicevano che erano stati i partigiani. Chiunque fosse stato, per noi seguì un anno durissimo.
Qualche tempo prima che venissero uccisi i diciassette partigiani, anche a noi capitò una brutta avventura che avrebbe potuto avere conseguenze terribili. Tra noi c’era una ragazzina la cui madre faceva la staffetta per i partigiani. Portava notizie e ordini dai comandanti. Le visite alla figlia erano un buon alibi. Al pianterreno della casa rossa c’era una grande stanza dove si svolgeva la maggior parte della nostra vita: mangiare, studiare, lavorare, giocare. La stanza era delimitata su due lati contigui, dai muri perimetrali dell’edificio. Gli altri due lati erano chiusi da ampie vetrate che appoggiavano su una base di legno. Durante la notte le vetrate erano oscurate da pesanti tendoni blu, appesi con anelli a bastoni di legno. Durante il giorni i tendoni erano spostati verso i relativi angoli, creando una specie di nicchia in grado di nascondere una persona accovacciata. La donna che faceva la staffetta era nascosta lì, quel giorno che i tedeschi vennero a perlustrare la nostra casa. Noi bambine facevano il girotondo, cantando filastrocche, in mezzo a quella stanza, quando nel vano della porta interna apparvero due energumeni, con tante armi addosso che dopo molti anni ho visto solo al cinema. In mezzo ai due c’era la superiora che conosceva qualche parola di lingua tedesca. La suora ci disse di salutare e ci ordinò di continuare a cantare. Obbedimmo, anche se ci tremava un po’ la voce. I due militari, forse ingannati dalla nostra apparente tranquillità se ne andarono quasi subito. Non ci saremmo salvate se avessero scoperto il nascondiglio di quella donna. Avevamo corso un bel rischio.
Qualche giorno dopo, per scovare i partigiani, i tedeschi incendiarono tutte le case del paese, risparmiando l’edificio della scuola, la chiesa e la nostra casa. Vicino all’edificio del collegio però, stavano bruciando tre case. Noi buttammo acqua fredda a secchi, sulle persiane di legno per evitare che prendessero fuoco. C’era nell’aria una fortissima puzza di kerosene, usato con il lanciafiamme per appiccare il fuoco. La guerra stava per finire. I tedeschi se ne andarono precipitosamente, lasciando sul loro passaggio una mucchio di rovine. Il risultato delle guerre è sempre questo.
Ho di quel periodo dei ricordi incancellabili: il muggito di terrore dei bovini che bruciavano vivi nelle stalle, il sapore di benzina delle patate, cotte sotto la cenere delle case incendiate. Mi dispiace non riuscire a ricordare il nome e il volto della donna che faceva la staffetta.
HAI UNA STORIA DA RACCONTARE?
Se siete cresciuti coi racconti di guerra dei nonni o magari li avete vissuti di persona, se siete a conoscenza di fatti, storie curiose o ancora quelle della tradizione locale ma anche vicende recenti, inviatele a redazione@corfole.com oppure contattateci allo 0185.938009.
Oltre alla pubblicazione, avrete un libro di Ghilarducci.
La scrittura non è il vostro forte? Vi manderemo un nostro giornalista.
I commenti dei lettori
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