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    cultura, edizione cartacea, storia locale

    di Michela De Rosa | 01 Marzo 2016 | in categoria/e cultura edizione cartacea storia locale

    I finti preti? Un'invenzione ligure del 1600: li chiamavano "battibirba" e ci voleva una licenza per diventarlo. Ma falsificavano anche quella....

    I finti preti? Un'invenzione ligure del 1600: li chiamavano "battibirba" e ci voleva una licenza per diventarlo. Ma falsificavano anche quella....

    di Michela De Rosa

    In fenomeno era conosciuto come “battibirba” ed era una richiesta di elemosina con motivazioni fantasiose, esercitata in maniera talvolta molesta, dai cosiddetti “birbanti” o “guidoni” o “ghitti”: finti preti come un certo Bartolomeno Rolandelli, che una lettera del parroco di Maissana (La Spezia) del 1736 descriveva così: “Vive malamente, va per il mondo tutto l’anno, veste da sacerdote, si finge parroco, benedice case, armenti, campi e poi cerca emolumenti di messe a segno tale che in termine di due mesi si porterà a casa più di £ 200”.
    La strada migliore per diventare “battibirba”, come spiega Marco Porcella nel libro Con arte e con inganno, era di farsi direttamente chierici o preti, come fece un tale Luigi Brizzolara, parroco nel 1813 di Levaggi, “che da chierico batteva la birba con due suoi fratelli”.

    Per poter esercitare senza essere arrestati i “birbanti” dovevano possedere la licentia questuandi, nella quale erano prefissati alcuni doveri, tra cui quello di non oltrepassare mai i confini della diocesi: insomma, una sorta di “patente”, ma si scoprì che proprio a Borzonasca se ne fabbricavano di false! Insomma false patenti per falsi preti!

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    Chi non rispettava le regole si rendeva appunto responsabile della pratica della birba per la quale erano previste severe sanzioni ecclesiastiche, tra cui la scomunica minore. Inoltre era giudicata un “costume criminoso” cioè assolvibile dai confessori solo su licenza episcopale. Non era tuttavia rara la circostanza in cui preti montanari, conniventi e variamente coinvolti in tale attività, finissero per soccorrere i battibirba assolvendoli ed eludendo la riserva.
    Il fenomeno raggiunse la sua estrema diffusione nel XVIII secolo e l’area in cui era maggiormente praticata era la Valle Sturla ove operavano più di 400 battibirba, ma con le migrazioni il “birbantaggio” prolifeò in mezza Europa e si spinse fino in Nord America. Per interrompere questa usanza la Repubblica di Genova tentò di spopolare la località di Sopralacroce con un’emigrazione in Corsica, nel 1714, che finì in modo tragico. Nell’Ottocento, grazie a una maggior prevenzione e al ritiro del passaporto ai soggetti più sospetti, l’esercizio della birba decadde rapidamente: risultarono segnalati ancora pochi ghitti (termine ligure levantino per i battibirba) operanti in Spagna e negli U.S.A. che raccoglievano elemosine tra i migranti italiani. Vengono parimenti ricordati gli ambulanti di Mezzanego che, recandosi in Germania per suonare l’organetto o vendere nocciole alle fiere, ancora agli inizi del Novecento, solevano dire “Andèmu a bàte a bìrba”.

    Tratto da CORFOLE! del 3/2016, con 25.000 copie gratuite: la testata più diffusa del Levante © Riproduzione vietata


     


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