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attualita, cucina, cultura, edizione cartacea, storia locale, tempo libero
di Michela De Rosa | 02 Febbraio 2016 | in categoria/e attualita cucina cultura edizione cartacea storia locale tempo libero
“Un fiasco, un pentolino, un tubo e tanta pazienza”: di quando i nostri nonni producevano la grappa fatta in casa. (Al museo etnografico di Gattorna un tradizionale "alambicco")
Amatissima, specie al Nord e in Sardegna (dove si chiama Filu ‘e ferru. Vedi sotto), è di sicuro uno dei distillati che più rappresentano l’Italia e molti dei nostri nonni usavano prodursela in casa, per lo più con strumenti improvvisati, recuperati dalla quotidianità domestica (Vedi foto).
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> La curiosità
Perché i sardi la chiamano filu ‘e ferru?
Il nome risale a quando veniva prodotta clandestinamente e le bottiglie e gli alambicchi venivano nascosti sottoterra. Per poterli ritrovare venivano legati con uno o più fili di ferro con un capo che sporgeva dal terreno: il filo di ferro, appunto.
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“Acqua per i poveri”, fatta “con gli scarti dei ricchi”
Da chi e come fu inventata non è chiaro. Si sa che la produzione di distillato di vino, ad esempio, divenne nota quando il medico padovano Michele Savonarola (1384 – 1462) pubblicò il primo trattato su questo argomento: “De Conficienda Aqua Vitae”. Probabilmente si iniziò a distillare la vinaccia già nel XIV o nel XV secolo, o forse prima ancora. In molte pubblicazioni dedicate alla storia di questo distillato si fa riferimento a un documento riguardante un certo Enrico di ser Everardo da Cividale del Friuli che nel suo testamento pare avesse lasciato in eredità “unum ferrum ad faccenda acquavitem” (un alambicco per distillare l’acquavite) e in tale contesto si nomina anche la grespìa. In realtà mai vi è stata prova a sostegno di questo aneddoto. Si sa però che la Grappa non era destinata ai ceti più abbienti, che riservavano per sé il vino o magari il distillato di questo, lasciando alla popolazione ciò che restava: ovvero le bucce, i semi e i raspi dell’uva fermentata.
La grappa che noi conosciamo si ricava infatti dalle vinacce (gli scarti solidi dell’uva), che possono essere di due tipologie: fermentate o non fermentate. La fermentazione è un processo fondamentale perché permette a una sostanza di uso comune di trasformarsi in alcool attraverso i lieviti. Fino agli anni 50 la tecnica più praticata era la distillazione a fuoco: ponendo uno scaldino contenente un fiasco con le vinacce sulla brace si portava il contenuto in ebollizione. Il vapore veniva fatto passare in una serpentina che gli permetteva di raffreddarsi. Alle origini il raffreddamento avveniva a temperatura ambiente, più tardi venne ideata una bacinella (contenente acqua fredda) per giungere infine alle moderne tecnologie. Il vapore condensato (e diventato quindi liquido) viene trasferito nella bottiglia. Un processo non semplice, che richiede pazienza e passione.
Cosa significa "grappa"?
Vi sono due fondamentali teorie sulla derivazione del termine grappa: la più accreditata afferma che derivi dal latino medievale “grappulus” (grappolo d'uva); la seconda afferma che la derivazione è ben più recente, ovvero da “graspa” (così chiamata in Triveneto), la quale deriva a sua volta da “graspo” che significa letteralmente “tralcio d'uva”. Non vi è alcuna correlazione con il Monte Grappa o con Bassano del Grappa, dove però vi è la sede del PoliMuseo della Grappa.
Acquavite, ovvero “l’acqua della vita contro la morte”. Di quando si usava come rimedio contro la peste
Quando nel XVI secolo si diffuse il flagello della peste, i medici cominciarono a prescrivere forti bevande alcoliche che davano ai malati una temporanea sensazione di benessere, come riportato in queste ricette dell’epoca: “Acqua perfettissima a guarire peste e vermi. Ad uno homo se ne dà uno quarto, ad uno mammolo mezzo quarto, ad uno piccolino una ottava. Piglia mezzo boccale de acqua vita nella quale poni le infrascripte cose: ientiana termentilla dittamo carlina ana oncie mezza; miele cotto et despumato quanto te pare et adopera” (ricetta dagli “Experimenti” di Caterina de’ Medici).
E ancora: “Pigliate al tempo del sospetto della peste tre cime di ruta, una noce, un fico secco. Ponete il tutto in mezzo bicchiero di acqua di vita per ore tre e poi bevete.”
Infine: “Pigliate una cipolla bianca, di quelle che si mangiano e fatene succo et mele et aceto et suco di ruta et di mille foglie, ana, et mescolate e dategliene al patiente due terzi in un gotto pieno a metà di acqua di vita et sia caldo et sia dato infra sei hore et stia nel letto ben coperto si che sudi.”
Tratto da CORFOLE! del 2/2016, con 25.000 copie gratuite: la testata più diffusa del Levante © Riproduzione vietata
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