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    cultura, edizione cartacea, letture, storia locale

    di Luca Bagnasco | 09 Ottobre 2014 | in categoria/e cultura edizione cartacea letture storia locale

    La Fontanabuona del 1500? Un posto degno di CSI tra banditi, faide familiari, torture, attentati e... lasagne avvelenate

    La Fontanabuona del 1500? Un posto degno di CSI tra banditi, faide familiari, torture, attentati e... lasagne avvelenate
Paolo Tietz, l'autore dello studio

    Avete presente il telefilm CSI che mostra come i tecnici della Polizia Scientifica risolvono i crimini? Ebbene, le cronache fontanine del ‘500 e del ‘600 illustrano una valle da.. scena del crimine.

    Lo illustra Paolo Tietz (in foto) nel suo studio “Banditi e commissari, scaramucce e furti, lasagne attossicate e attentati alle donne altrui, torture e sentenze, pene corporali e ammende in oro nella Val Fontanabuona del 1580”. Il suo lavoro di ricerca, tramite documenti di inchieste conservati presso l'Archivio di Stato di Genova, si incentra attorno alla figura di Giovanni Battista Di Negro, un magistrato genovese di illustre lignaggio inviato dalla Repubblica di Genova nel gennaio del 1580 in Val Fontanabuona per ripristinare l'ordine dopo una guerra civile, prendendo il posto del suo predecessore Pietro Maria De Ferrari, elevato a più importante incarico. Di Negro, però, resterà nella valle per soli quattro mesi, concludendo la sua esperienza con un licenziamento ed un cattivo giudizio del suo sostituto, che lo giudicò “giovane e poco esperto nel governare”. Di quei mesi, Paolo Tietz ha analizzato e riportato sette inchieste, relative ad alcuni dei casi più significativi dalle quali traspaiono i motivi per cui il Commissario venne ritenuto non adatto al suo lavoro: i capi d'accusa e le sentenze oggi farebbero capo a categorie come “partecipazione esterna in associazione banditesca”, “favoreggiamento”, l'essere “mandanti di un omicidio eseguito da banditi”, oltre a furti, omicidi e violenze, e per molte di queste la pena comminata fu relativamente moderata (libertà su cauzione, sentenze monetizzabili) ed in un caso addirittura un bandito catturato, tal Stefano Leverone, colpevole di furto e violenza ai danni di una ragazza, viene dichiarato al bando poiché, la notte prima, fuggì dal carcere.

    Faide famigliari e inchieste
    Un aspetto che emerge è che i diversi atti criminosi possono inquadrarsi come “violenza interfamiliare”. Dagli atti emergono numerosi cognomi che ancora oggi popolano la nostra Valle, come Tassara, Ratto, Canessa, Costa, Lercaro solo per citarne alcuni. La giustizia privata era evidentemente pratica comune, basti vedere alcuni esempi significativi. Nel caso Tassara/Ratto la violenza nasce dall'uccisione di alcuni membri della parentela Tassara e di quella Ratto da parte dei Costa. Le famiglie colpite reagiscono rivolgendosi a dei banditi. Alcuni di questi, della famiglia Canessa, rifiutano (per via di una pace con i Costa) ma ben presto viene assunto un Lercaro, ben felice del lavoro. Il caso Canessa/Garbarino, poi, rivela anche una certa fantasia nell'esecuzione dei delitti: “A Giacomo, parente di Nicolino Canessa (noto bandito) era stata uccisa tempo prima una bestia. Non ha idea di chi possa essere stato, ma il Commissario punta direttamente all'inimicizia tra Canessa e Garbarino. Vien fuori che prima i Garbarino uccisero un cugino di Nicolino Canessa servendogli delle lasagne avvelenate (preparate dalla moglie di Garbarino, che però non fu mai inquisita) e poi Nicolino Canessa uccise Batta Garbarino, il quale aveva probabilmente sedotto la moglie del bandito.” Anche le feste erano occasione di scontri. La Val Fontanabuona del 1580 non era infatti un mondo triste, isolato e sull'orlo della carestia. Anzi, da Maggio a Ottobre in particolare, la Valle è un susseguirsi di feste danzanti e di vita sociale. Tietz cita infatti “Faide e Parentele“ di Osvaldo Raggio, in cui è narrato l'episodio di un giovane che insieme ad alcuni amici scende una sera in paese per partecipare a una festa; qui chiede a una ragazza di ballare e ne segue una violenta rissa con relativi feriti e pugnalati. Da qui forse, l'inizio dell’ennesima faida familiare.

    Interrogatori e torture
    Le tecniche d'interrogatorio del XVI secolo erano ben poco ortodosse e la tortura era una pratica collaudata. Quella più utilizzata consisteva nel legare le braccia del malcapitato dietro la schiena e poi sollevarlo sottoponendolo a stiramento muscolare. In un caso, tal Araone Tassara in vista della tortura, lamenta al Commissario Di Negro di soffrire di un problema al braccio: onde evitare dunque pericolose infezioni, con il consenso del medico viene deciso un altro tipo di tortura, cioè l'avvicinamento dei piedi nudi a un braciere ardente. è il caso di dire che è passato dalla padella... alla brace.

    Tratto da CORFOLE! del 10/2014, con 25.000 copie gratuite: la testata più diffusa del Levante © Riproduzione vietata


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