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cultura, edizione cartacea, storia locale
di Pier Luigi Gardella | 03 Ottobre 2012 | in categoria/e cultura edizione cartacea storia locale
Come ci sono finiti i liguri in Corsica e come è nata Coti Chiavari? Tutta colpa dei bruchi, dei ‘briga' e di una lettera anonima
L’articolo di Claudia Sanguineti sullo scorso numero, relativo al paesino di Coti-Chiavari in Corsica, merita un approfondimento anche in relazione a quanto emerse in un convegno tenutosi nel 2003 a Prato Sopralacroce e intitolato appunto “La triste emigrazione in Corsica nel 1714”. Organizzato dall’associazione chiavarese “O Castello” in collaborazione all’Accademia dei Cultori di Storia Locale, vide l’intervento di qualificati relatori quali il compianto Francesco Casaretto, Monica Roscetti ed Albino Zanone.
Bruchi, cavallette, carestie e ‘birba’: così era la vita nel Levante
Dalle loro relazioni si possono trarre importanti e curiose notizie su questa vicenda, a partire dalle misere condizioni di vita delle popolazioni delle valli chiavaresi. Un’economia basata su una povera agricoltura e nulla si poteva per evitare annate di carestia dovuta essenzialmente da stagioni inclementi o da invasioni di bruchi e cavallette. Nell’abitato di Sopralacroce, appartenente al Comune di Borzonasca, viveva un migliaio di anime, e per molti di loro l’unica possibilità di sopravvivenza era l’emigrazione. Un’emigrazione che spesso era volta anche al semplice accattonaggio e si spingeva nei paesi europei del nord. Erano chiamati birbanti, dallo spagnolo briba, poi birba, che significava il far vita da vagabondo. Un fenomeno che a Prato Sopralacroce aveva una notevole diffusione e che destò preoccupazione nei governanti della Repubblica di Genova.
1714: una lettera anonima e in 461 furono spediti a Coti
Una lettera anonima (un cosiddetto “biglietto di calice”) inviato al Senato della Repubblica denunciava la situazione del paese, spopolato per gran parte dell’anno a causa dei viaggi degli uomini “in Alemagna a vivere di birba” e suggeriva di impiegare in Corsica quegli abitanti di Sopralacroce che vivevano di solo accattonaggio. L’idea evidentemente piacque al Senato e fu individuato nel territorio a sud di Ajaccio il piccolo villaggio abbandonato di Coti. La zona era ricca d’acqua e, secondo i sopralluoghi fatti dalla Repubblica, era adatta alle coltivazioni agricole. Gli abitanti di Sopralacroce accolsero con entusiasmo la proposta e la mattina di sabato 6 gennaio 1714 lasciarono Sopralacroce, carichi di provviste e di poveri effetti personali; ovviamente a piedi, il giorno successivo raggiunsero per mezzogiorno Chiavari. Erano 461 persone dall’età di uno a sessantasette anni. A Chiavari erano giunte intanto tre galee inviate dalla Repubblica genovese, sulle quali i coloni si imbarcarono e qualche giorno dopo presero il largo alla volta della Corsica. Il piccolo convoglio tra la Gorgona e Capraia fu avvicinato da un’imbarcazione che si temette fosse barbaresca e con minacciose intenzioni. Al che le tre galee preferirono disperdersi: per due andò tutto liscio e riuscirono a raggiungere Ajaccio. La terza, sorpresa da un fortunale, fece naufragio poco distante dalla costa: tutti si salvarono, ma andò persa una buona parte di provviste.
L’inizio tra mille difficoltà: i tetti che si spaccavano, la carenza di cibo e la malaria
A metà febbraio i coloni raggiunsero Coti, che la Repubblica aveva ufficialmente ribattezzato Croce di Coti, ed iniziarono i lavori per costruire le case e riadattare le esistenti, nonché quelli per lo sfruttamento agricolo dei terreni. Ma mille problemi insorsero, non previsti dalle autorità: una fu la copertura delle case; i coppi costruiti sul posto si spaccavano e la Repubblica non intendeva investire soldi per acquistare tegole ad Ajaccio. Poi le scorte che iniziavano a scarseggiare mentre ancora non si potevano raccogliere i primi frutti delle coltivazioni messe a dimora. Sorsero poi problemi con i Corsi, che anche se decine di anni prima avevano abbandonato quei terreni e quelle poche case, ora ne rivendicavano il possesso. Infine, il vero grande problema: la malattia che fece la sua prima comparsa nell’agosto 1714. Un tipo di malaria che in breve portò ad ammalarsi decine di persone, trentatré della quali morirono. Dopo una tregua con la stagione invernale, la malaria riprese con i primi caldi nel 1715; lo scoramento pervase gli abitanti, molti fuggirono ed in autunno rimasero solo centocinquanta persone. Metà era fuggita, l’altra metà era morta. Ben presto i pochi superstiti furono rimpatriati e dopo meno di due anni finiva miseramente la storia di Croce di Coti.
La rinascita col nuovo nome: Coti Chiavari e con.. una prigione
Ma non finisce qui il nostro racconto perché nuove vicende interessarono il borgo dopo la vendita della Corsica alla Francia da parte dei Genovesi nel 1768. Un intervento del Governo francese portò ad una bonifica e ad un ripopolamento di Coti e della sua valle, per poi iniziare un processo di privatizzazione che assegnò porzioni di terreni agli abitanti e che portò ad un definitivo risanamento e ripopolamento della zona. In questo processo di riorganizzazione il Senato francese fece sorgere con legge dell’11 giugno 1852, il nuovo comune di Coti-Chiavari, memore probabilmente della triste vicenda di quasi centocinquant’anni prima. Inoltre il Governo prese per sé un grande bosco di eucalipto confinante, dove costruì una vastissima colonia agricola carceraria, che restò in funzione sino al 1906 ed i cui ruderi son ancor oggi ben visibili.
Un’ultima curiosità: il nome Coti deriva da un profumo
Il villaggio deve il suo nome alla celebre casa di profumi francese Coty. Fu infatti fondata da Francesco Spotorno Coti, corso di Ajaccio, che dopo una lunga esperienza a Coti-Chiavari ed in varie località corse, specializzandosi nella coltura di piante e fiori profumati, si trasferì a Grasse per studiare le tecniche della cosmetica per fondare poi nel 1904 a Parigi l’attuale Coty, oggi con sede a New York.
Tratto da CORFOLE! del 10/2012, con 25.000 copie gratuite: la testata più diffusa del Levante © Riproduzione vietata
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