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attualità
23 Marzo 2011 | in categoria/e attualita
Venerdì 25, Chiavari: conferenza del prof. Giovanni G. Chiesura dal titolo "L'etica del dovere e la missione nella biografia e nell'epistolario mazziniano"
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Mazzini, l’apostolo dell’Italia moderna, ha trovato, nella nascita e nella proclamazione della Repubblica italiana (18 giugno 1946), nonché nelle successive fasi dell’Assemblea costituente (25 giugno 1946-31 gennaio 1948), la piena realizzazione delle sue aspirazioni, considerate ancor oggi, da taluni, contraddittorie e utopistiche. Questi eventi fondativi rappresentano, invece, a nostro avviso, il vero compimento, in senso mazziniano, dello Stato unitario italiano. Per Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805-Pisa, 10 marzo 1872), sorgente ed essenza della Nazione e della Patria è il Popolo, che, per essere tale, deve poter esprimere una volontà comune, una ferma unità d’intenti. L’essere umano che, insieme a Dio, nel Popolo si incarna, adempie alla sua Missione, al suo dovere, al servizio della Patria e dell’Umanità, nella Storia. Nell’educazione, e non nell’istruzione, risiede la forza del progresso e della vita sociale. In una sua celebre opera, dedicata agli operai italiani, Dei doveri dell’uomo, così, infatti, scrive: “Dio v’ha fatti sociali e progressivi. Voi dunque avete d’associarvi e di progredire…”. E conclude, poi, in questo modo: “Senza un governo popolare, che da Roma scriva e svolga il Patto Italiano, fondato sul consenso e rivolto al progresso di tutti i cittadini dello Stato, non è per voi speranza di meglio.”
La conferenza si inserisce nelle maniferstazioni organizzate dalla Società Economica di Chiavari in occasione delle celebrazioni de 150° anniversario dell'Unità d'Italia.
Vissuto e politica nell’epistolario mazziniano -
Giuseppe Mazzini, per la peculiare lapidarietà del suo pensiero, per la esemplare singolarità di una vita trascorsa in esilio, è stato raffigurato dalla manualistica storica e scolastica come personaggio ascetico, lontano dalla quotidianità; le lettere indirizzate a parenti ed amici dimostrano il contrario e ci presentano una persona piena di sentimento, ricca di emozioni, sensibile e vivace.
Figura centrale dell’epistolario è la madre, Maria Drago (Genova, 31 gennaio 1774-9 agosto 1852). A lei egli apre, con sincerità e immenso affetto, il suo cuore, con lei parla di problemi culturali e politici, come a persona di altissima levatura intellettuale e morale, a lei, nei momenti di scoramento o di bisogno, ricorre senza vergogna. In una lettera datata 8 luglio 1851, a proposito di un ritratto effettuato da Emilie Ashurst, rientrata a Londra da una visita a Genova, così scrive: “Vengo ora al vostro ritratto fatto da Emilia. Madre mia, è voi stessa: vi siete viva e m’è sembrato di rivedervi. V’è tutto il buono morale e intellettuale ch’è in voi: e v’è poi anche più che non vorrei, ma che so inevitabile, uno scontento del mondo, un sentimento di biasimo alla gente che pullula oggi sulla terra e che ha bisogno di dieci rivoluzioni per diventar migliore.”
Col padre, dottor Giacomo (Chiavari, 2 marzo 1767-Genova, 13 dicembre 1848), medico interno presso l’università di Genova, professore di Patologia e Igiene (1823) e di Anatomia e Fisiologia (1830), Pippo (così lo chiamavano in famiglia) ebbe un rapporto meno confidenziale, condizionato dalle aspettative paterne di personale realizzazione economica e professionale, caratterizzato, pertanto, da un atteggiamento di sottomissione rispettosa e affettuosa. A questo proposito ecco cosa scrive all’amico Giuseppe Lamberti, supponiamo dalla Svizzera, il 21 dicembre 1848, dopo la morte del padre: “Lamberti mio, ebbi la tua senza data. Da quando t’ho scritto, ho perduto mio padre. Io non sono come tu dici; credo troppo in una fede religiosa mia per pensare ad atti che io credo egoismo supremo per chi resta e colpa grave per chi parte; ma sento amarissimo il vuoto che mi si fa intorno; e ho un dolore nell’anima, perch’io non ho mai dato gioia a mio padre e l’unica che sarebbe stata compenso supremo per lui sarebbe stata quella di vedere la mia idea, quella che ci ha tenuto divisi, realizzata. Pazienza!”. Questa lettera, inoltre, è molto importante, anche sotto il profilo politico, perché stigmatizza, in merito alla Costituente democratica voluta dal Mazzini, una divergenza netta col progetto di Gioberti, che proponeva una Costituente degli stati italiani esistenti. E sempre, in riferimento al suo disegno politico (vale la pena di citarlo, proprio nel momento solenne delle nostre celebrazioni) e alla progettata Costituente repubblicana, il Mazzini così scrive, il 5 dicembre, al patriota Michele Accursi, a Roma: “Io vivo, voi lo sapete, irrequieto per l’Unità d’Italia messa a pericolo dai guastamestieri, non per la repubblica immancabile, inevitabile, non solamente in Italia, ma in pressoché tutta l’Europa […]. Pio IX è fuggito: la fuga è un’abdicazione: principe elettivo, egli non lascia dietro di sé dinastia […]. Roma è per volontà di Provvidenza, repubblica. La Costituente italiana, quando queste mura l’accoglieranno, confermerà, muterà o amplierà questo fatto.” Abbiamo citato questo passo per mostrare come le lacerazioni affettive e personali si intersechino nel Mazzini, senza mutare il suo fermo progetto politico, anche se, talvolta, è scosso dagli eventi pubblici o privati.
Un tenero affetto egli nutrì per la sorella minore Francesca, detta Cichina, nata nel 1808 e morta il 18 gennaio 1838. Tanto forte era il legame che li univa, che la madre non ebbe il coraggio di dire a Pippo che Cichina era morta. Solo il 9 febbraio gli parlerà di gravi problemi di salute. Ed ecco, quindi, la lettera da Londra del 16 febbraio 1838, che, nel suo incipit, dice già tutto: “Padre mio, e mia buona madre, so tutto. E perché non avete avuto confidenza nel mio coraggio? Perché non avete voluto ch’io dividessi fin dal giorno funesto il vostro dolore? Io ho diritto di divider tutto con voi. Soli ormai sulla terra, e in un tempo in cui non possiamo che soffrire, soffriamo almeno insieme. Questo dolore doveva pure presto o tardi venirmi: non potevate celarmelo a lungo; e già la mancanza di linee sue, ed altre cose, mi facevano pressentir questo colpo. Ma non sapete voi quanta necessità ho io di piangere tutte le volte che voi piangete?”. Alla sorella Antonietta Massuccone, alla quale era legato da un affetto sentito ma, in parte, ostacolato e controllato dal marito Francesco, uomo religioso, perbenista e conservatore, ferreo oppositore ideologico del cognato, scriverà parole affettuose, ma anche amare, di sfogo, per l’incomprensibile silenzio epistolare, interrotto, solo, dal decesso di Francesca. La lettera, scritta da Londra, in data 17 marzo 1838, è molto interessante e ci offre uno spaccato del dramma interiore vissuto dal Nostro. Significative, molto significative, sono le seguenti parole: “Ricordati sempre che altra è la vita del dovere, altra la vita del cuore. La prima, benché soddisfi la coscienza, non dà gioia mai, amarezza quasi sempre. La seconda è quella degli affetti e nessuna cosa può sostituirsi agli affetti.”
Un trasporto amoroso, durato tutta la vita, provò il Mazzini per Giuditta Bellerio Sidoli (Milano, 6 gennaio 1804-Torino, 25 marzo 1871). Si conobbero a Marsiglia nel febbraio 1832 e si separarono, quasi definitivamente, nell’ottobre del 1833. A lei scrive parole infuocate, per lei soffre, anche, di gelosia, di lei parla, specialmente, alla madre; ed ecco alcune frasi, tratte da una lettera del 2 aprile 1835: “Giuditta, la mia Giuditta – che io possa dirti una volta nella mia lingua, nella tua lingua, che mi sei cara, che ti amo disperatamente, che ti amo ogni giorno più, che né tempo, né altro farà mai che io t’ami meno, che penso a te, sempre, sempre, che sogno di te – che vivo per te – che ti ricordo come un prigioniero la patria e la libertà, che da te sola mi vien gioia e dolore: – che t’ho amato e ti amo come né posso dirti, né tu, perdonami, puoi intendere, né forse è bene che tu intenda…”. Giuditta Sidoli è una delle grandi eroine del nostro Risorgimento; mazziniana fervente, è stata perseguitata, spiata, incarcerata ed espulsa da varie città italiane, fino al soggiorno tranquillo a Torino, nell’ultimo decennio della sua vita. Da Lugano, l’anno precedente la sua morte, avrà per lei morente parole commoventi, solenni e immortali, che vale la pena di trascrivere: “Amica, voi soffrite e siete gravemente inferma. Vi conosco forte, rassegnata e credente. Nondimeno, anche il sapere che il pensiero di un antico amico veglia intorno al vostro letto può esservi caro e darvi un minuto di sollievo. In quel caso, sappiatelo: non ho mai cessato di pensare a voi, di stimarvi e di amarvi come una delle migliori amiche che io abbia incontrato sulla mia vita. Voi durerete, spero, ma s’anche doveste allontanarvi da noi, voi non dovete temere di quella che gli uomini chiamano morte e non è che trasformazione. Rivedrete un girono quei che amate e che v’amano. Fidate in Dio, nella sua legge e nella pura vostra coscienza. Date un pensiero anche a me e beneditemi. Io non oso farlo, ma l’anima mia è con voi. Vostro amico Giuseppe.”
Abbiamo fatto solo alcuni piccoli cenni alla vita intima del grande patriota Giuseppe Mazzini. Sarebbe importante, ne siamo convinti, soffermarci su alcune lettere indirizzate alla madre, specie quella in cui ci narra della visita alla camera squallida abitata un tempo da Rousseau nell’isola di Saint-Pierre, ove “il genio, alle prese con la miseria, è stampato in tutta quanta la camera”. Sarebbe interessante leggere l’analisi critica che fa, sempre alla madre, del Marco Visconti di Tommaso Grossi, in cui troviamo il vigoroso e scintillante linguaggio di Francesco De Sanctis. Dovremo, purtroppo, tacere delle lettere indirizzate agli amici, come, ad esempio, la prima che ci sia giunta, dell’estate 1824, che ha come destinatario Giuseppe Elia Benza (1802-1890), un autentico sfogo romantico, di stampo ortisiano. La figura di Giuseppe Mazzini è, nel suo insieme, complessa, ma autentica e vera, graniticamente protesa verso l’ideale, anche se tormentata dall’incertezza, dagli scoramenti e dal dubbio. Mazzini fu uomo solo, anche se attorniato da amici. Morì il 10 marzo 1872 a Pisa, ove era giunto in incognito un mese prima, presso i Rosselli. I funerali furono un trionfale viaggio pubblico, per ferrovia, sino a Genova. “Mazzini affascina perché tentò di evitare sia l’abisso dell’incertezza che la prigione della fede statica. Dallo sforzo di ottenere i duplici benefici della sicurezza e della libertà deriva il lascito proteiforme che fa di lui un uomo per tutti i tempi.” (Roland Sarti, Giuseppe Mazzini, Mondolibri, 1997)
Giovanni Giosuè Chiesura
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