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cultura, edizione cartacea, storia locale
di Silvia Franchi | 10 Luglio 2012 | in categoria/e cultura edizione cartacea storia locale
I massari e la tradizione del fuoco: un'antica regola non permetteva alle donne di farne parte, oggi la solita burocrazia rischia di farli sparire per sempre
Ne abbiamo da pochi giorni ammirato il lavoro con l'evento che per tre giorni a Rapallo ricorda l'apparizione della Madonna di Montallegro al contadino Giovanni Chichizola (2 luglio 1557): parliamo dei “massari” dei Sestieri rapallesi, San Michele, Seglio, Borzoli, Cerisola, Cappelletta e Costaguta, che con le loro casacche colorate e l'impegno profuso per tutto l'anno contribuiscono a portare avanti la tradizione secolare. Tra loro c'è Maura Arata, una dei veterani del Sestiere Cerisola, che ci spiega il significato dell'essere massaro, basandosi sulla propria e quanto mai particolare esperienza.
‘Tu no perché sei una femmina’, e invece Maura diventa la prima massara
«Diciamo che io sono nata massara. Ma ho deciso di diventarlo dopo un episodio particolare. Un giorno mio padre disse ai miei due fratelli di prepararsi per andare “a turno”, ovvero, a bussare alle porte delle case per la questua: “Tu no, perché sei una bambina”, mi disse. In quel momento scattò qualcosa e decisi che sarei dovuta diventarlo anch'io, anche se allora era un ruolo riservato esclusivamente ai maschi. Così, un giorno, mi presentai ad una riunione del Sestiere. Il massaro più anziano, quando mi vide, chiese a che titolo una donna fosse lì. Poi, però, mi prese sotto la sua ala protettiva. Diciamo che sono stata una “pioniera”».
Ora è più semplice entrare a farne parte?
«Sì. I problemi però sono due. Il primo: tanti ragazzi, per esigenze lavorative, sono andati a vivere fuori Rapallo. La seconda è la più ostica e ha a che fare con il conseguimento del “patentino da fuochino”, che autorizza al contatto con la polvere da sparo. Vista la concentrazione di “patentini” tra Tigullio e Golfo Paradiso, le autorità competenti non ne rilasciano più».
Quindi si rischia di perdere la tradizione per questioni pburocratiche?
«Sì, perché non ci saranno più giovani abilitati a portare avanti la tradizione che va avanti da secoli. Ben inteso: maneggiare la polvere da sparo è pericoloso. Ma ci è stato insegnato fin da piccoli a fare molta attenzione: “Quando a püe a parla, l'è tardi” (quando la polvere da sparo parla, è tardi), ci dicevano i vecchi per avvertirci. E poi il conseguimento del patentino, in teoria, è stato previsto per chi vuol diventare fuochino di professione, cosa che a noi non interessa. Magari bisognerebbe istituire un albo apposito per situazioni come la nostra, che siamo “fuochini” ma solo per tre giorni all'anno, per portare avanti una tradizione. Ma per questo servirebbe un appoggio dalla politica, dalle istituzioni. Forse ora, con il discorso delle “Città dei fuochi”, potrebbe sbloccarsi qualcosa a livello regionale. Siamo una specie in estinzione, speriamo che qualcuno ci tuteli (ride)».
Ci sono figure “storiche” a cui si collega il suo percorso di massara?
«Tra i “mitici”, di sicuro “Michelin” (Michele Campodonico) di Costaguta, e poi Püe (Alfredo Solari): sono cresciuta sotto la sua ombra. Ma anche Vitto “U ferrâ”, con le sue bombe improponibili».
E la storia del “baggio”?
«Tutto è nato tanto tempo fa, proprio per via della rivalità tra Cerisola e Cappelletta: “Mangiâ u baggiu” (ingoiare il rospo) era l'espressione riferita a chi, dei due Sestieri, sparava peggio durante le Feste. Lo sfottò andava avanti fino a tarda notte sotto le finestre di casa degli sconfitti: non a caso, generalmente la sfida finiva a cazzotti [ride]. Ricordo due “grandi vecchi” che giocavano assieme a carte per tutto l'anno, ma nei giorni delle Feste non si rivolgevano il saluto: appartenevano uno a Cerisola, l'altro a Cappelletta. Da qualche anno, al Sestiere che per gli addetti ai lavori si classifica ultimo per qualità di sparate e fuochi d'artificio viene consegnato un rospo in pietra, di quelli che si adoperano come ornamento per i giardini. Prima, però, viene colorato con le insegne del Sestiere che se lo è aggiudicato...».
Essere massari in tempo di crisi...
«Non è semplice. Ad esempio dal 23 maggio al 1°luglio siamo impegnati nella questua, e non sempre la gente ci accoglie a braccia aperte. Vista la situazione economica, poi, quest'anno le persone hanno dato quello che hanno potuto. Poi, nei tre giorni di festa la fatica diventa disumana. Ma ben inteso: non ci mettiamo in tasca niente come è giusto che sia. E a ripagarci è l'emozione di fare qualcosa di bello per la città, di non deludere i nostri padri e quello che ci hanno insegnato. Mio zio, fuochino storico, abita sulla collina di Sant'Agostino, non scende in centro da 30 anni e guarda i fuochi da casa sua. Eppure, ancora oggi è il nostro metro di giudizio: a fine spettacoli andiamo a chiedere a lui se abbiamo sparato bene oppure no».
È vero che ai più anziani, durante il rito dell'Alzabandiera la mattina del 1°luglio, scende sempre qualche lacrima?
«Non solo ai più anziani. Succede anche a me: quando Cerisola spara il primo mortaletto dalla spiaggia dei bagni Lido, l'emozione è sempre fortissima. Anche se assisto al rito da 30 anni».
Mentre racconta l'ultimo aneddoto, a Maura si inumidiscono gli occhi. L’amore per le tradizioni è anche questo.
i mortaletti: Cenni storici
Protagonista ludico – popolare delle Feste di Luglio, il mortaletto, estinto nella gran parte del mondo, resiste (almeno, per quanto ad oggi sappiamo) nella sola zona di Rapallo, Recco e comuni limitrofi. Si presenta come un piccolo cannone antico, a canna cortissima, costruito e dimensionato per il solo utilizzo a salve. Antica è anche la sua carica: polvere nera, il primo esplosivo prodotto dall’uomo. Lo stesso che, più di quattrocento anni fa, armava le galee genovesi ed i temibili vascelli del pirata Dragut, flagello delle popolazioni costiere. Per caricare il mortaletto ligure, si versa semplice polvere nera nella canna, quindi la s’intasa con materiale leggero ed inerte (ad esempio segatura) in modo da ottenere, all’accensione, un colpo a salve, “impreziosito” da spettacolari quanto innocue vampe e fumo denso, di sapore antico. Una volta caricati i mortaletti si aguginano: s’innescano cioè versando nel foro d’accensione (agugino) polvere nera finissima. Disposti a terra, sono poi collegati da strisce, ancora della medesima polvere, che bruciano più o meno lentamente a seconda della direzione della brezza di mare… Ecco quindi l’abilità del massaro il quale, per intuito ed esperienza, sa quando, come e dove posizionare i mortaletti, grossi o piccoli, in modo da salutare con giusto ritmo la Santa Patrona. Come in tutte le arti, solo pochi posseggono il dono di saper disporre al meglio la sparata, che per riuscir veramente gradita deve attagliarsi, secondo tradizione, ad ogni singola tipologia d’evento celebrativo. Col mortaletto si cresce, ascoltando i colpi rituali dell’1,2,3 luglio o delle Feste Frazionali; si celebra il matrimonio di amici e parenti, preparando brevi ed allegre sparate; si saluta questo o quell’altro evento, sacro o profano; si dà l’estremo saluto ad un caro estinto disponendo un’austera sparata di 21 colpi, lenti e cadenzati: gli stessi ventuno che, con diverso spirito, ogni mattina di Novena accompagnano con sacralità l’Elevazione del Santissimo al Santuario di Montallegro.
Tratto da CORFOLE! del 7/2012, con 25.000 copie gratuite: la testata più diffusa del Levante © Riproduzione vietata
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