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attualità
09 Luglio 2011 | in categoria/e attualita
Quando ‘strassè' e ‘vinacceri' animavano le piazze, i venditori ambulanti piemontesi proponevano menta, lavanda e camomilla e dall'Abruzzo venivano a suonare la ‘piva'
Numerose sono le attività artigianali ormai scomparse che un tempo animavano a turno le piazze di Riva Trigoso. Si trattava perlopiù di specializzazioni artigianali ambulanti che operavano quindi all’aperto e non in una vera e propria bottega; essi facevano la loro comparsa più volte durante il mese o addirittura durante la settimana.
Gli straccivendoli, al grido di “strassè” arrivavano con il loro carretto una o due volte alla settimana e compravano stracci vecchi, ferro, cartone, ossa di animali, metalli pregiati come rame, bronzo, piombo e alluminio. Spesso i ragazzi per raggranellare un po’ di soldi da spendere in caramelle o gelato, si impegnavano a cercare questi oggetti da vendere poi agli straccivendoli. Il ferro, scartato dai cantieri navali, veniva trovato sulla spiaggia, e tra il 1947/48 veniva pagato ben 40 lire al chilo.
Il vero e proprio laboratorio degli arrotini consisteva nella loro bicicletta; seduti sul sellino riuscivano ad azionare la ruota collegata ad una mola antistante, ed affilavano così forbici, coltelli ed altri attrezzi utili. Gridando “Mulitta affila coltelli e forbici” prendevano posto nella piazza principale collocata tra le odierne via della Libertà e via Erasmo Piaggio. Sempre nella piazza principale era lo stagnino a riparare pentole vecchie magari bucate o dal manico rotto e tegami, attraverso l’utilizzo di chiodi incandescenti e stagno liquefatto con l’aiuto di un apposito marchingegno. Gli ombrellai facevano la loro comparsa durante i mesi invernali; essi seduti su un piccolo seggiolino procedevano alla riparazione di questi grossi ombrelli tipici all’epoca, molto diversi dai nostri. Talvolta cercavano di raddrizzare le bacchette, riparare il manico rotto oppure ricucivano alcuni strappi sulla stoffa.
Un lavoro molto curioso era quello degli impagliatori di sedie che con i loro voluminosi fasci di paglia colorata, dopo essersi adagiati in un angolo del borgo, si accingevano a riparare perlopiù vecchie seggiole da cucina. Un lavoro che richiedeva molta pazienza ed accuratezza, poiché dopo aver eliminato totalmente il fondo ormai sfondato delle sedie, procedevano al nuovo intreccio dei fili di paglia colorati cercando di ricreare alla perfezione il disegno e la fantasia originaria in modo tale da renderle davvero come appena acquistate. Quando in paese vi erano cani randagi, all’epoca pericolosi vista l’assenza di vaccinazioni, il Comune chiedeva l’intervento dell’accalappiacani. A bordo della sua curiosa bicicletta caratterizzata dalla presenza di una grossa gabbia catturava questi randagi e li conduceva a Sestri Levante nei pressi di via Nazionale, al “Mattatoio” dove venivano tenuti per alcuni giorni nella speranza che il padrone venisse a riprenderli pagando una piccola ammenda; in caso contrario il cane veniva ucciso.
Le donne di allora aprivano volentieri la porta ai venditori ambulanti provenienti dal Piemonte che proponevano loro menta, lavanda e camomilla. La menta veniva impiegata nella preparazione di bevande rinfrescanti durante i mesi caldi, la camomilla per preparare la classica tisana e la lavanda per la profumazione di armadi e cassetti. I suonatori di cornamusa, detta in paese comunemente “piva” provenivano dalle zone della Ciociaria o dell’Abruzzo; sotto le finestre delle case chiedevano l’elemosina in cambio di un po’ di musica. In paese quando arrivavano questi suonatori tutti erano soliti dire “L’arrive a piva ü ciove”, una diceria ad oggi non molto chiara. I calzolai invece avevano “fissa dimora” a Riva, ed erano due. A Ponente un certo Camillo confezionava scarpe su misura e riparava le suole. A Levante, un cieco di nome Fortunato in via Erasmo Piaggio riparava le scarpe a domicilio per arrotondare. Negli anni ’30 grossi barili di acciughe salate venivano caricate a bordo del “rivanetto” una imbarcazione più piccola rispetto al Leudo, per essere esportate sul mercato toscano, dal porto di Livorno. Alla fine degli anni ’60 scompaiono anche i cosiddetti “vinacceri” ovvero coloro che si recavano a bordo di un Leudo (tipica imbarcazione del luogo) all’Isola d’Elba per importare gli allora rinomati vini elbani. Il viaggio durava circa quattro giorni salvo inconvenienti legati al brutto tempo. Alcuni ricordano la vita di bordo: «c’era una modesta cucina dove si cucinava preferibilmente minestrone e stufato preparato con il polmone delle mucche perché costava meno. Si mangiava all’aperto, ognuno con la ciotola sulle ginocchia». Le famiglie di vinacceri a Riva erano quelle dei Castagnola e dei Zolezzi, oggi sono rimaste due osterie.
Maura Bregante
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Tratto da CORFOLE! del 7/2011, con 25.000 copie gratuite: la testata più diffusa del Levante © Riproduzione vietata
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