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edizione cartacea, storia locale
31 Maggio 2011 | in categoria/e edizione cartacea storia locale
Bucce di patate: pillole di guerra - Le bombe su Viale Kasman, i vetri rotti, il "guardiano" dei mobili di casa e la "comodità" del rifugio antiaereo. Inoltre l'epilogo dolce-amaro della vita di Antonio Boni classe 1925
Continuano le testimonianze sulla guerra raccolte dalla nostra redazione. Questi scritti non vogliono commenti, abbiamo più volte sottolineato che ognuno ha vissuto la guerra da una particolare posizione e devono essere rispettate fino in fondo per quello che rappresentano. A noi spetta solo il compito di trascriverle affinchè ne resti memoria e i periodi di guerra non debbano mai più ripetersi. Ecco quindi le vicissitudini di Giorgio Chiappara, classe 1940, e la commovente lettera del nipote di Antonio Boni che ci ringrazia per gli articoli dedicati al nonno (ottobre 2010 e aprile 2011); contraccambiamo di cuore questo affetto perchè parole come le sue, pur lasciando l’amaro in bocca, danno pieno compimento al nostro lavoro.
L’Italia entrò in guerra il 10 Giugno 1940 e proprio il giorno prima si era concluso il Giro d’Italia vinto da un giovanissimo Fausto Coppi dopo che Gino Bartali era caduto nella discesa della Scoffera. Chiappara Giorgio è invece nato a Lavagna il 29 Febbraio 1940 e ci racconta: “Mia madre mi diceva sempre che ero già allora ben messo dato che venendo al mondo pesavo già la bellezza di cinque chili e mezzo. A quei tempi si nasceva in casa e il dottor Mangiante disse a mia madre che se fossi nato all’ospedale mi avrebbero seduta stante mandato a casa. Mi ricordo che con dei compagni di gioco si prendeva in giro mia nonna dalla quale noi ragazzini si fuggiva per gli orti e per la strada di Corso Garibaldi verso il fiume Entella. All’epoca ero nato nella casa “du Bastian” vale a dire il signor Podestà e a quei tempi, andare al fiume, a circa 150 metri dalla casa portando una tinozza con i panni e varie cose che si lavavano su una delle grosse pietre accostate alla riva e si stendevano ad asciugare sulla riva. (A quei tempi non esistevano lavatrici elettriche e ci si arrangiava così). Un mio divertimento nella buona stagione era quello di navigare nell’acqua bassa del fiume con la tinozza con solo un paio di calzoncini corti e con le bretelle. Il 12 maggio 1944 ero partito da casa solo verso il fiume dove finiva la strada (attualmente passa una bella pista ciclabile che si inerpica oltre la Madonna del ponte). Mia madre era andata a fare la spesa, i miei quattro zii erano a lavorare o a fare il militare, esattamente come mio padre che era partito inviato ad Oristano in Sardegna quando avevo un anno (in seguito fu fatto prigioniero e ritornò dopo il 25 aprile del 1945). All’improvviso udii un rumore che non conoscevo e, al di là del fiume, lungo l’odierno viale Kasman vi erano parecchi pali alti che sparirono in una nube di polvere con un grosso boato: era picchiata una bomba sganciata dai bombardieri americani. Non saprei dire quanti erano ma questi aerei andavano su e giù lungo il corso del fiume sganciando bombe e ho sempre pensato che se una di queste fosse caduta al di qua del fiume non sarei qui a raccontare questa storia. Moltissime furono sganciate nel tentativo di colpire il ponte della ferrovia e il ponte carrabile dell’Aurelia, vi furono tantissime case sventrate tra Chiavari e Lavagna e decine di morti. Mia madre per fortuna non tornò da Lavagna passando per Corso Garibaldi, dove vi erano parecchie case crollate, ma si diresse verso la chiesa del ponte della Maddalena perchè decise di andare a comprar della verdura da un certo contadino di nome Chiappe che aveva gli orti lungo la piana dell’ Entella aldiqua del “Seggiun”. Un camminamento alto un paio di metri che esiste ancora adesso, fatto costruire dal conte Camillo Benso conte di Cavour, ritenendo che servisse a contenere le piene del fiume per non inondare Lavagna. La mia fortuna fu essere trovato da due persone: una il figlio del Signor Podestà (Vulgo Cecca) ed un veterinario il Dottor Barbieri con i quali ci rintanammo dietro il vallo di protezione del “Seggiun”. La cosa più buffa, nei miei ricordi da bambino, era che il signor Podestà aveva un fucile da caccia completamente inutilizzabile contro i possenti bombardieri americani. Ritornando a casa vidi mia nonna con i suoi folti capelli bianchi che da una finestra con un catino raccoglieva i vetri rotti delle finestre di casa. La cosa più triste per noi civili è che era incominciata la vera guerra. Vi furono tantissimi altri bombardamenti a Genova, Recco, Zoagli ..... All’indomani con il carretto di legno che mio zio falegname mi aveva costruito si caricò quello che si poteva e ci trasferimmo a Leivi. Sfollati da certi parenti, in una vecchia casa, dove rimanemmo per un certo periodo perchè poi non ci vollero più. A Leivi eravamo andati solo io, mia madre e mia nonna mentre mio nonno rimaneva imperterrito di guardia ai mobili di casa. Purtroppo visto i dispiaceri passati nel periodo a Leivi mia nonna morì pensando ai figli in guerra arrestati o deportati. Successivamente affittammo una camera in Via Raggio a Chiavari tra le chiese di Rupinaro e San Giovanni Battista. Lì vi era la grossa comodità: quando suonavano gli allarmi aerei ci trasferivamo passando per la via che porta al vecchio ospedale di Chiavari (attualmente vi è una scuola statale) dove era in costruzione una galleria per poter andar a vivere per fuggire ai bombardamenti. In galleria vissi anche il giorno 25 aprile, la fine della guerra, e da dietro i piloni portanti dei portici davanti alla chiesa di Rupinaro, assieme ad un altro bambino, vidi salire sul camion i soldati tedeschi in fuga dopo che i soldati americani e i partigiani avevano contribuito a rendere libera la città da tedeschi e fascisti.
L’epilogo dolce-amaro della vita di Antonio Boni classe 1925
Caro Giansandro,
Le scrivo per ringraziarla dello spazio che sulle sue pagine ha dedicato a mio nonno: Antonio Boni (n.d.r. nella foto, quando gli abbiamo consegnato il TAPPIRO, ottobre 2010). Da buon partigiano ci ha lasciato il 25 aprile, in quel giorno che ad 86 anni ancora definiva come “La sua festa”. Ha trascorso la sua ultima settimana di vita nell’ospedale di Lavagna, ma di stare in quel letto proprio non ne voleva sapere e chiedeva a noi che lo andavamo a visitare di restare poco perchè fuori di lì avremmo trovato di meglio da fare. Ha combattuto a modo suo una battaglia cui non era abituato,non più contro la fame, il freddo e i pericoli della gioventù nella Brigata Berto, ma contro un immobile attesa che con il suo carattere aveva poco a che vedere. Il giorno prima di mancare con il nostro aiuto si è messo a sedere sul letto ed ha insistito perchè gli sbucciassi un’arancia; l’ha mangiata e succhiata con gusto sino all’ultimo spicchio, poi con un gesto perentorio della mano a tagliare l’aria ha detto: “Sono a posto così”. Solo dopo l’ho interpretato come l’ultimo assaggio del dolce-amaro della vita, l’ultima lezione, una semplicità che sembra appartenere ad altri tempi. E solo adesso capisco cosa fossero per lui i ricordi della Resistenza e perchè lo scurissero in volto, non sono qualcosa a cui decidi di pensare o meno, ma qualcosa che ti ritrovi addosso e ti pesa sulle spalle, a volte raccontarlo fa stare meglio, altre volte no e la tristezza rimane a lungo prima di dissolversi.
Grazie ancora.
Stefano Giacometti
Tratto da CORFOLE! del 5/2011, con 25.000 copie gratuite: la testata più diffusa del Levante © Riproduzione vietata
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